PERMESSI LAVORATIVI PREVISTI DALLA LEGGE 104/92 E DISCIPLINA DEL PART-TIME L’art. 33 della L. 104/92 prevede espressamente che il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa. Nulla quaestio quando il rapporto di lavoro instaurato è a tempo pieno. Ma cosa succede se la tipologia di lavoro prestata è a part-time, ovvero con orario ridotto rispetto al tempo pieno? Per prima cosa vanno distinte le tre tipologie di part-time esistenti: Part-time orizzontale: è quello “classico” che prevede mezza giornata lavorativa (ad esempio dalle 8.30 alle 12.30 oppure dalle 14.30 alle 18.30) Part-time verticale: è quello che prevede che il lavoratore lavori a tempo pieno (es. 8 ore) ma solo per alcuni giorni alla settimana (ad esempio 3), o anche limitatamente ad alcune settimane o alcuni mesi. A maggiore esemplificazione è part-time verticale quello in cui il lavoratore presta attività dal lunedì al mercoledì a tempo pieno, mentre non lavora i restanti giorni della settimana. Part-time misto: è un mix tra il part-time orizzontale e quello verticale; il lavoratore, per esempio, può lavorare ad orario ridotto solo per qualche giorno alla settimana. COME VIENE DISCIPLINATO IL LAVORO PART-TIME VERTICALE CON I PERMESSI GIORNALIERI PREVISTI DALLA L. 104 PER ASSISTERE LA PERSONA CON GRAVE DISABILITA’? Nessun problema nel part-time orizzontale dove i 3 giorni previsti per legge sono garantiti. Nel part-time verticale (ma anche quello misto segue la stessa disciplina), invece, possono sorgere problemi: spesso i datori di lavoro riproporzionano (ovvero riducono) i 3 giorni lavorativi spettanti al lavoratore, applicando dei parametri di calcolo indicati in circolari diramate da INPS. Accade quindi sovente che il dipendente con contratto di lavoro di tipo part-time verticale si veda attribuire solo 1 o 2 giorni di permesso, anziché 3 o, parimenti, che il lavoratore già dipendente a tempo pieno e con fruizione dei 3 giorni, se li veda decurtare una volta passato al part-time verticale. Tali prassi, benché indicate nelle varie circolari INPS con tanto di coefficienti di calcolo, sono nella maggior parte dei casi illegittime. Se è vero che non esiste una disposizione specifica di legge che regolamenti espressamente la tipologia di part-time verticale, è altrettanto vero che in questi casi soccorrono i principi vigenti nel nostro ordinamento, tra tutti quello di non discriminazione tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale. Ma soprattutto ciò che si impone è una interpretazione della norma in senso costituzionale e coerente alle indicazioni comunitarie e internazionali in tema di tutela della disabilità. La finalità della norma è, infatti, quella di favorire l’assistenza alla persona affetta da grave handicap in ambito familiare e di salvaguardare il suo diritto alla salute, inteso come diritto fondamentale dell’individuo. LA CASSAZIONE SI E’ PRONUNCIATA SUI PERMESSI LAVORATIVI NEL PART-TIME VERTICALE Questi sono i principi che la Suprema Cassazione ha fatto propri in alcune recenti sentenze, pronunciandosi in casi in cui i lavoratori sono ricorsi in giudizio per tutelare i loro diritti. I Giudici della Cassazione civile, sulla base delle considerazioni sintetizzate poco sopra, sono giunti a riconoscere che il lavoratore part-time verticale debba poter fruire di 3 giorni di permesso, al pari degli altri lavoratori. La Cassazione, tuttavia, ha adottato un “correttivo” al fine di evitare che la fruizione dei permessi del part-time verticale possa tradursi in un “irragionevole sacrificio per la parte datoriale”. Per contemperare le esigenze del lavoratore con quelle di produttività del datore di lavoro rispetto alla particolare articolazione della prestazione lavorativa, la Corte di Cassazione ha ritenuto ragionevole operare il seguente distinguo: 1) se le giornate di lavoro part-time (articolate su base settimanale) superano il 50% delle giornate che sarebbero previste se il lavoro fosse full-time, si ha integrale diritto alla fruizione dei permessi (quindi 3 giorni). 2) se, invece, le giornate di lavoro part-time (articolate su base settimanale) sono inferiori al 50% delle giornate di lavoro a tempo pieno, o limitate ad alcuni periodi dell’anno, allora i permessi potranno essere legittimamente riproporzionati. Esempi: – il lavoratore che lavora 4 giorni su 6, siccome lavora più del 50% rispetto alle giornate in cui lavorerebbe se fosse a tempo pieno, ha diritto di fruire dei 3 giorni di permesso; – il lavoratore che lavora 2 giorni su 5, siccome lavora meno del 50% rispetto alle giornate in cui lavorerebbe a tempo pieno, può vedersi legittimamente riproporzionati i giorni di permesso dal proprio datore di lavoro. Inoltre la Cassazione ha stabilito che meritano accoglimento le domande di risarcimento del danno svolte dai ricorrenti i quali, quindi, si sono quindi visti risarcire il danno subito (secondo criteri equitativi) con una somma di denaro calcolata per ogni giorno di permesso illegittimamente non fruito. CHIARIMENTI SULLA CONCESSIONE DEI PERMESSI LAVORATIVI: CHI LI EROGA? L’art. 33 della L. 104/92 stabilisce che è il datore di lavoro (e non dunque l’INPS) ad erogare i giorni di permesso, in quanto la domanda del lavoratore investe un profilo inerente il rapporto di lavoro. Tant’è che, come spesso accade, quando il lavoratore a tempo pieno -già fruitore dei 3 giorni di permesso- modifica il suo rapporto di lavoro trasformandolo a part-time di tipo verticale, è il datore di lavoro, e non l’INPS, a riproporzionare i permessi. Quindi in controversie di questo tipo dobbiamo rivolgerci al datore di lavoro. Diversamente accade quando è INPS ad escludere preventivamente il diritto del lavoratore a poter fruire dei permessi. In un caso in cui un padre di due gemelli con handicap grave aveva chiesto il doppio dei permessi in ragione del fatto che i figli erano due, è stata riconosciuta la legittimazione passiva dell’INPS, non tanto in quanto soggetto obbligato al riconoscimento dei permessi, ma in quanto soggetto
Autismo e indennità di accompagnamento
In una causa da me patrocinata di fronte al Tribunale di Treviso è stata resa una interessantissima Sentenza che ha avuto il pregio di chiarire due concetti molto importanti in tema di autismo e indennità di accompagnamento, per nulla scontati, soprattutto per tutti coloro che si vedono sistematicamente negare tale diritto dalle varie commissioni mediche. L’INDENNITA’ DI ACCOMPAGNAMENTO VA INFATTI RICONOSCIUTA: ANCHE AI BAMBINI IN TENERA ETA’ ANCHE IN PRESENZA DI UN DISTURBO AUTISTICO LIEVE E Q.I. NELLA NORMA In primo luogo è stato riaffermato il principio per cui l’indennità di accompagnamento è dovuta anche ai “bambini in tenera età” allorquando essi presentino capacità inferiori ai coetanei. Partendo dall’ovvio presupposto che nessun bambino di tenera età, per quanto sano e correttamente sviluppato, è autonomo, il Tribunale afferma vada allora individuato il livello di dipendenza dagli altri che, diverso e più intenso rispetto a quello che caratterizza ciascun bambino di quell’età, fonda e costituisce il presupposto per il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento. In secondo luogo, e veniamo specificatamente all’autismo, il Tribunale di Treviso si è premurato di specificare che l’indennità di accompagnamento è riconoscibile anche di fronte ad una patologia autistica lieve e pur in presenza di un Quoziente Intellettivo perfettamente nella norma. Ciò in quanto, specifica il Tribunale, l’assenza di ritardo mentale non incide sulla disabilità necessitante l’assistenza continua abnorme. IL CASO A. è un bambino di 5 anni a cui è stato diagnosticato un disturbo pervasivo dello sviluppo di tipo autistico da una struttura accreditata e specializzata presso la quale è seguito dal punto di vista valutativo e riabilitativo dall’età di 3 anni. Le osservazioni cliniche ripetute nel tempo e la somministrazione di appositi test diagnostici (in particolare la Vineland Scale) hanno rivelato che A. presenta abilità di un bambino di circa 3 anni nell’area della comunicazione, delle abilità quotidiane e della socializzazione. Nonostante sia stato evidenziato che A., a causa del suo autismo, ha abilità e capacità in termini di autonomia, comprensione, socializzazione inferiori a quelle dei suoi coetanei, la commissione medica territoriale non ha però ritenuto di riconoscergli l’indennità di accompagnamento. I genitori hanno allora convenuto in giudizio l’INPS proprio per ottenere il diritto a ricevere quell’indennità di accompagnamento ingiustamente negato. Ed hanno vinto la causa. Per il Tribunale di Treviso è proprio questo divario, ossia l’incapacità di compiere gli stessi atti quotidiani di un coetaneo in ben tre settori, a fondare il diritto all’indennità di accompagnamento. E’ invece irrilevante, chiarisce infine il Tribunale, che il quoziente intellettivo del piccolo A. sia perfettamente nella norma: egli, pur con un Q.I. adeguato alla sua età presenta comunque capacità inferiori ai pari normodotati; da tale divario deriva la necessità di assistenza continua che fonda conseguentemente il diritto all’indennità di accompagnamento. Il ritardo menale, invece, così come altre eventuali comorbilità associate (es. epilessia) potranno, al più, incidere sulla previsione di rivedibilità della misura (di norma esclusa).